Martedì 25 giugno 2019 dalle ore 19.00 si inaugura “Jennifer“, mostra di Salvio Capuano alla “SABINALBANO MODART GALLERY” di Napoli, fino al 10 luglio 2019.
Salvio Capuano incontra Annibale Ruccello. Le Cinque Rose di Jennifer.
Le rose ci sono nell’istallazione di Salvio Capuano. E ci sono due teche con frammenti
di un racconto: quello di Annibale Ruccello.
Il cuore della rappresentazione è la cristallizzazione dell’attesa.
Ma anche (e ancora) la fragile identità che si schianta sulla dura superficie della vita.
Jennifer il Travestito aspetta Franco l’Amore.
Tutto è appeso ad un filo. Al telefono.
Le due teche custodiscono la causa e l’effetto dell’Attesa e della Fragilità.
Il desiderio di essere riconosciuti, di essere chiamati col proprio nome. Di essere visti, semplicemente.
Tutti gli elementi sono là a ricordarcelo.
I Capelli, la Corona di Spine scintillante. Le Pietre. Le Rose più vere del vero. Un Unicorno violetto (ora) simbolo dell’eterno infantilismo.
Tutto da guardare e non toccare. IDENTITÀ, VITA, DESTINO da riconoscere. Non si può toccare: l’irreparabile è cronaca ormai.
Il cristallo delle due teche rimette insieme i pezzi di Jennifer. Trasparente e fragile.
Salvio Capuano mette insieme i frammenti
di Annibale Ruccello
alle pareti
– Cinque rose su formelle
– Cinque canzoni su carta
– Due quadri
La poesia di Mimmo Grasso
Sabina Albano
Questo lavoro di Salvio Capuano è evocativo sia perché suscita una ra rêve sia perché toglie la voce, ammutolisce, pone il visitatore in una parentesi di taciuto (il proprio). Si ha l’impressione di sostare in un globo di vetro in cui cade la neve di Paul Celan (“entra nella mia casa/dove la neve del taciuto fluttua”). Il taciuto è il non parlare quando si potrebbe e dovrebbe parlare, uno “star per”, la potenza, la “possibilità di” rimanere inespressi o esordire in lallazioni fino ad articolare linguaggi mediante attività verbovisive qui sollecitate dagli oggetti “esposti”.
Salvio Capuano ha accolto questa indecisione e, con Le cinque rose di Jennifer, ripropone il canone del taciuto mediante un doppio monologo interiore tra maschera e persona.
La sua appartata sensibilità gli consente di intercettare la lunghezza d’onda del drammaturgo Ruccello e del suo protagonista: si tratta di una vibrazione suscitata da ricordi impagliati, dismessi, lisi, e che qui diventano parafernalia nel camerino da trucco dell’anima di Jennifer. Il luogo dell’azione artistica fa parte della creazione, della scena (skenè, tavolato sul quale si esibiscono gli attori ma,anche, ombra). I Quartieri Spagnoli da tempo imemorabile accolgono i “femmenielle”, peraltro, come il Parthenias Virgilio, considerati sacri in varie culture, e “sacri” per la loro dualità, sintesi di zòon e bìos. Ricordiamo che le religioni e le società non difendono il sacro ma si difendono dal sacro, inteso come forza istintiva e devastante, pericolosa, da gestire mediante rituali condivisi. Napoli è da tempi lontanissimi abituata a questa “doppiezza”, a partire dall’icona della Sirena. Il protagonista del racconto, indifeso, davanti al pubblico (altro elemento ambiguo dell’azione) a mano a mano strucca la sua anima mettendosi a nudo. In questo spazio avvertiamo la sua presenza, il suo odore di rossetto e battesimo: sta sistemando le rose finte, versa acqua inerte, indossa la parucca, cerca tra i visitatori Franco. Questo effetto è dovuto all’aura che Capuano ha immesso negli oggetti. “Jennifer” forse abitava nella periferia Nord ma tutti immaginiamo che la sua casa si trovasse sui Quartieri Spagnoli perché lì la tradizione ha collocato i femmenielle-coribanti che si riuniscono per la loro celebre tombolata, lì, su una piccola collina la cui struttura urbanistica ricorda un brulicante pueblo di tane e covi o nidi. Questa abitazione la vediamo come un tugurio in un presepe. Eccolo, Jennifer, lassù, nella parte meno illuminata della scenografia: sta fuori il balcone, incantato nel vedere la pioggia di polverina magica che cade dalla stella cometa; chiama a gran voce il dormiente Benino perché si svegli ed assista al miracolo.
La nostra non è una digressione senza causa: il primo lavoro antropologico di Ruccello riguardava La cantata dei pastori.
Capuano ci suggerisce, anche, un ipogeo e non si starebbe fuori senso immaginando gli apparati del travestimento quotidiano come addobbi e paramenti di un faraone minimo. Altresì, i gingilli di Jennifer sembrano il corredo di un’icona uguale all’uguale.
Che significa “uguale all’uguale”? Che non si ha mai paura del “diverso”: ciò o chi è diverso da me non mi tocca. Mi fa paura, invece, ciò o chi è uguale, possibilmente uguale, a me: ho paura di poter essere come lui, di identificarmi con lui. Da ciò, da questa paura, irrompono anche il razzismo e l’intolleranza, a loro volta bisognosi di altri travestimenti, costumi, divise.
Gli elementi selezionati da Capuano sono simmetrici al vissuto di Jennifer e poggiano su altre dualità: pesantezza-leggerezza, gravità-sospensione, concretezza-immaginazione. L’artista, come Jennifer, gioca col trucco che notoriamente può essere “leggero” o “carico” e che, comunque, c’è ma non si vede. L’atmosfera è per molti aspetti quella di “Piume di piombo” del grande patafisico Jean Orto (Enea Troiano): si vedano le cinque rose, appassite, canute, adagiate come ex voto su tavolette di piombo. La loro leggerezza è trattenuta – percettivamente – dal peso indolente di un destino prescritto. I fiori che portiamo ai defunti implicano una speranza di rinascita,speranza che,qui,è vietata, forse rimossa. Le rose si ripetono su una parete, dunque in verticale, in ordinata, appese al muro come foto-ricordo; tra esse una è “più uguale” delle altre e appunto per questo se ne distacca, sottolineata, ribadendo il concetto “siamo tutti uguali ma uno è più uguale all’eguale”.
Il sangue raggrumito delle rose è quello che scorre dal naso dell’ombra di Jennifer, Ginevra, gwen e hwyfar, bianco-docile, e non è forse per caso,visto il riferimento al fiabesco clima arturiano contenuto nel nome, che Ruccello lo abbia scelto. Per oscure tracce,non solo fonetiche, Jennifer è anche Gennaro, Giano, anch’egli ”doppio”.
Appaiono,altresì, due ulteriori elementi in dinamica simbolica tra loro: un toupè da bambola (femminile) e un balocco (cavallo-liocorno, maschile). Siamo, dunque, nel mondo del fantastico con un’ atmosfera da pan di zucchero, da carnevale fanciullo, da abracadabra per distrarre la sofferenza del protagonista, la sua autorelizzazione, o metempsicosi dischiuse dalla domanda “Chi vorrei essere?”. Un bambino risponderebbe “Zorro”, oppure “D’Artagnan”. Jennifer risponderebbe “Io. E, per diventarlo, mi travesto come io”. Intendo dire che, ai fini della comprensione delle dinamiche mentali, ciò che agisce ed è agitato nel travestimento è esito di natura e cultura, con prevalenza della seconda. Si tratta, cioè, di un processo, difficile, lacerante, di sostituzione di un modello con uno più “alto” e lontano, ideale, proiettato-progettato. Nel dramma di Ruccello un esempio lo abbiamo durante il dialogo tra i due travestiti speculari che “giocano” a chi meglio interpreta il ruolo femminile, profondamente diverso, che si è scelto, con l’avvertenza che le persone sono serie solo quando giocano. È ciò che Sergio Piro chiama “antropologia trasformazionale”, la capacità di ciascuno di assumere molte figure e agire con diverse personalità. Trasformare e travestire sono quasi sinonimi. Capuano ha trasformato gli effetti personali del travestimento, nel senso che li ha ricondotti alla loro origine umana ed affettiva, alla loro dimensione infantile.
Ruccello, che interpretò la parte di Jennifer alla prima teatrale, fa intervenire nella fiaba, non a lieto fine, l’Orco cattivo, il Super-Io, gli apparati e divieti sociali di fronte ai quali il travestimento diventa armatura, ma si tratta di un’armatura di carta stagnola. Capuano è stato sul luogo del delitto-suicidio di Jennifer, ne raccoglie gli indizi e li custodisce mantenendo la loro esemplarità sognante sì che essi scompaiono prima di comparire nel vissuto del visitatore, come accade col cesto di rose contornato da un filo spinato d’oro e che si isola nel contesto, va in “alto”, diventa una costellazione, quella di Berenice.
Chiudiamo le nostre considerazioni (cum sidera) con un testo in forma di poesia e come allegato alla vision di Capuano:
a giovanni-miriam, femminiello
“cinquina!”, ed eri tutto strizzatine
con corna di scongiuri e di dispetto.
casuale, inaspettato, obliquo, dogma
tra l’essere qualcosa e chi, sovrano
il 31 dicembre sui quartieri,
goffo e grande di spagna, incoronato
regina della tombola, ossequiato
da altri bambolotti senza denti.
il tuo secondo nome fu “miriàm”
pecché giuanne e ’a maronna stanno nzieme,
i’ songo ’a mamma e ’o figlio, singhiozzava
quel tuo pomo d’adamo contraffatto.
il vestito di carta stagnola s’accendeva di luci
e rotolava a terra la corona-biscotto
quando azzeccavi una combinazione.
ricordo che sul muro avevi due profili
contornati di fosforo e non so
chi fosse ombra di chi o caricatura:
una era ferma e l’altra dondolava
sotto la luce della lampadina.
un’acqua acuta calunniava l’acqua
della voce in falsetto. avevi il cuore
fermo e in caduta libera guardando
me con le mie cartelle semivuote,
indifferente ai numeri ed al caso,
quasi chiedendo scusa perché osavi,
innocuo e pio, ironico e sincero,
sfottermi per cercare l’attenzione
di un poeta, per te uno che sa,
uno amato da un dio tenero e schivo,
ch’è un pata-terno perché può cambiare
il male con il bene, sa predire le sorti,
sa progettare mondi su misura
– solo a parole, gianni, te lo giuro.
mimmo grasso
Salvio Capuano
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